Monografia a stampa
Valenti, Stefano
La fabbrica del panico
Milano : Feltrinelli, © 2013
Abstract/Sommario:
“La vergogna mi assale e fatico a muovermi. Le palpitazioni aumentano, il cuore batte a vuoto, in gola. Ho paura di svenire e devo sdraiarmi, immobile, gli occhi al soffitto”. “La fabbrica del panico”, il primo romanzo del valtellinese Stefano Valenti pubblicato da Feltrinelli, inizia con la descrizione delle sensazioni d’ansia, di paura, di disorientamento provate dall’Autore dopo la morte del padre, un operaio che, lasciata la sua valle, era andato a lavorare a Milano in una fabbrica ...; [leggi tutto]
“La vergogna mi assale e fatico a muovermi. Le palpitazioni aumentano, il cuore batte a vuoto, in gola. Ho paura di svenire e devo sdraiarmi, immobile, gli occhi al soffitto”. “La fabbrica del panico”, il primo romanzo del valtellinese Stefano Valenti pubblicato da Feltrinelli, inizia con la descrizione delle sensazioni d’ansia, di paura, di disorientamento provate dall’Autore dopo la morte del padre, un operaio che, lasciata la sua valle, era andato a lavorare a Milano in una fabbrica nella quale era a contatto con l’amianto, causa di un fatale tumore ai polmoni.
In uno stile narrativo di esemplare linearità, Valenti descrive le vicissitudini, il dolore fisico e morale del padre e di coloro che, come lui, furono costretti a vivere in condizioni disumane per guadagnarsi un salario e la loro terribile fatica quotidiana segnata dall’ansia, dall’angoscia, da turni massacranti. Ad affondare nella disperazione il padre – scrive l’Autore – furono inoltre l’indifferenza, il disinteresse dimostrato dal mondo nei suoi confronti. “Inutile dunque cercare di adempiere con volontà e determinazione a un compito verso il quale tutti gli operai, tranne rare eccezioni, provavano una naturale avversione. Un’avversione che si ritorceva contro l’operaio, dal momento che era causa di una innaturale tensione del corpo, di un ritardo nell’esecuzione del gesto e infine di un insuccesso, fatale, che non contribuiva ad altro se non ad allungare i tempi di lavorazione, costringendolo a restare davanti ai forni molto più a lungo di quanto volesse, più di quanto un essere umano potesse restare senza perdere la ragione”.
Oltre a descrivere in modo vibrante il clima della fabbrica, Valenti parla del padre anche dopo le sue dimissioni, quando cercò – ma era troppo tardi, avendo già il male aggredito il suo corpo - di trovare un riscatto nella sua passione per la pittura. Un giorno lo osserva sulle rive dell’Adda, che divide in due - “come un coltello d’acqua” - la Valtellina, mentre lancia nel fiume pietre piatte. “Vorrei non essere lì. Ha l’aria atterrita, le mani violacee e trema dal freddo. Ha gli occhi lucidi di chi ha la febbre. Con candore dice che qui ha dipinto la prima volta, en plein air, con un cavalletto a tre piedi. Dice che è qui che ha sofferto la prima volta la vergogna dell’autodidatta, una condanna che lo ha costretto alla rincorsa, a restare indietro, ad arrancare”.
Un romanzo esistenziale e di denuncia, nel quale sono messe in luce considerazioni sociali, giuridiche, mediche (l’inutile tentativo di curare il padre). La descrizione della vicenda si svolge negli anni Settanta, ma se le cose - almeno crediamo - sono ora migliorate, se è stata raggiunta una maggiore consapevolezza del pericolo dell’amianto per la vita umana, ciò lo si deve al sacrificio degli operai che hanno pagato di persona. Il libro di Valenti è soprattutto un richiamo morale e un atto di solidarietà verso chi ha sofferto ed è morto. [pg, dic 2013]
[comprimi]